mercoledì 11 gennaio 2017

Ecco quanto ci costava una pizza in lire e ora in euro. Il video spopola sul web

Quando e perché inizia la crisi italiana? Chiederselo non è un esercizio inutile: in un certo senso è il vero problema di questi anni, anche perché il dibattito pubblico e politico non ha, paradossalmente, dato una risposta né univoca né convincente al di là della tiritera moralisticheggiante sul debito pubblico, la corruzione, l’assenza di riforme. Un refrain che, dopo cinque anni di bastonate al reddito, non regge più.
Se c’è un termometro approssimativamente efficace di benessere, soprattutto nel confronto con i nostri competitor, è forse il Pil pro capite, cioè la porzione di ricchezza annualmente prodotta a cranio. La Commissione europea mette a disposizione questo valore dal 1960. In particolare, il direttorato generale degli Affari economici dell’organo comunitario ha un sito che ospita i dati macroeconomici (Ameco, goo.gl/LwIF9z). Il grafico qui pubblicato si basa su questi numeri: richiede una breve spiegazione, ma è frutto di una elaborazione non complessa del Pil pro capite a prezzi costanti dei paesi europei nell’ultimo mezzo secolo. L’idea di combinarli in questo modo è del professor Alberto Bagnai, che attingendo a questo database ha affiancato il dato della ricchezza di ogni europeo (dove per Europa si fa riferimento al nocciolo dei 15 maggiori paesi dell'Unione: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania - prima ovest, poi tutta -, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Svezia) a quello degli italiani. La linea mostra l’andamento della differenza tra il nostro Pil pro capite a prezzi correnti e quello di tutti e 15 i paesi: se il valore è nullo (come nell'87, nel 1990 e nel '98), l'Italia è in media col dato; se è negativo, gli italiani sono più poveri rispetto al continente; se è positivo, gli abitanti del nostro Paese hanno più ricchezza degli altri.
UNA LENTA RINCORSA
Il calcolo fatto dalla Commissione ovviamente vale sia prima sia dopo la moneta unica, e tiene conto dei cambi in modo da fornire un valore uniforme e paragonabile. Allargando lo sguardo su qualche lustro si guadagna in prospettiva: il nostro Paese inizia con gli anni '60 una lenta “rincorsa” al livello di Pil pro capite dei 15, che viene raggiunto a fine anni '80. A metà degli anni Novanta la curva si inverte in maniera secca: dal 1996-97 in poi il dato, che pure in valore assoluto continua ad aumentare fino all’esplosione del bubbone finanziario di Lehman nel 2008, lo fa in maniera via via minore rispetto al resto dei partner. In un paio d’anni il piccolo vantaggio costruito si erode, si azzera, poi va in territorio negativo. Se paragonata ai decenni precedenti, fatti di piccoli spostamenti, la curva precipita. Una curva fatta di maggior disoccupazione, salari più bassi, minor potere d’acquisto. Il fatto che sia una differenza tra il Pil pro capite nostro e quello dei 15 dà l’idea della condizione dell’Italia rispetto agli altri: l’ultimo ventennio comprende sia anni in cui l’economia gira sia la peggior recessione dal Dopoguerra. In entrambi i casi, l’impoverimento relativo è quasi violento.
GLI ANNI DELLA SVOLTA
Che è successo quindi negli anni della svolta, dopo il 1996? Da decenni sono in corso le prove tecniche di moneta unica: l'Italia entra prima nel Serpente monetario, quindi (1979) nello SME, il Sistema monetario europeo con Germania, Francia, Danimarca, Paesi Bassi e Lussemburgo. È il sistema di cambi semifissi che vincola i margini di fluttuazione delle valute e porterà, nel tempo, all’Ecu e all’euro. Nel 1992 lira e sterlina (nel frattempo lo Sme si è allargato ad altri paesi) escono, sotto la pressione di Soros. Ciampi, allora governatore di Bankitalia, impegna ingenti riserve valutarie per difendere il tasso di cambio necessario a restare nello Sme (nell’anno la lira è scambiata a 790 contro il marco), finché gli sforzi si rivelano vani: l'Italia svaluta (nel 1993 ci vogliono 950 lire per un marco), esce e non si verificano scenari apocalittici. La banda di oscillazione prevista dallo Sme si allarga e iniziano i tentativi di rientro nel progetto che condurrà alla moneta unica. Nel frattempo arriva Berlusconi, cade, poi vince Prodi e siamo al ’96. Con la libera fluttuazione, per un marco ci vogliono oltre 1.100 lire. C’è da decidere a quale valore sulla divisa tedesca la nostra moneta vada ancorata per tornare nel club. In maggio, per esempio, il presidente Fiat Cesare Romiti si espone così: «Rientrare nello Sme con un cambio a 1.000 lire sarebbe penalizzante, avrebbe più senso verso le 1.050. Non dobbiamo puntare solo a fare una bella figura: la lira a mille penalizza fortemente l’industria italiana». Il 25 novembre 1996 l’Italia entra nuovamente nello Sme col cambio a 990, dunque con una moneta ben più forte rispetto al valore che Romiti considerava appropriato. Stavolta «ballare» non si può: al netto di minime variazioni, è il tasso con cui entreremo nella moneta unica: le famose 1936,27 lire per un euro corrispondono a 1,995 marchi, e dunque un marco pesa come 990 lire.
Ovviamente nelle dinamiche di un Paese come l’Italia entrano infiniti fattori e individuarne uno solo che faccia da capro espiatorio è scorretto. Tuttavia è impossibile sottovalutare il fatto che da quando la lira adotta un cambio fissato a quel livello con i partner accade ciò che Romiti aveva facilmente intravisto: diventa meno conveniente comprare e produrre nel nostro Paese.
LO SCARTO CALA
È un fatto che da qui in poi, tornando al grafico, lo scarto tra il nostro Pil pro capite e quello europeo si riduce e poi diventa a nostro sfavore. L’euro ci entra in tasca il 1° gennaio 2002, ma nei fatti c'è già sei anni prima, con la nostra moneta prezzata a 990 sul marco. Finché l’economia naviga, nessuno se ne accorge: la torta cresce ancora per tutti. Quando il vento cambia, però, sono dolori. La picchiata della linea qui raffigurata è un indice non esaustivo, ma inequivoco.
IL CAMBIO GIUSTO
Ultimamente il tema della non funzionalità dell’euro, perfettamente chiaro alla totalità degli economisti al momento del suo varo, sta conoscendo una curiosa riviviscenza. Per esempio, uno studioso della Oxford Economics ha calcolato per Bloomberg il tasso di cambio «giusto» per alcuni paesi dell’eurozona, registrando fortissime differenze tra uno stato e l'altro. Conclusione? A cominciare dai provvedimenti della Bce, «ciò che è giusto per la moneta unica nel suo complesso è il più delle volte dimostrabilmente sbagliato per la maggior parte dei membri presi uno per uno». Mercoledì invece Le Figaro ha ripreso un paper del Fondo Monetario (altra organizzazione in vena di grandi ripensamenti) secondo cui, con l’euro, la Francia ha una moneta sopravvalutata del 6% rispetto al proprio sistema economico mentre la Germania ne possiede una più debole del 15%: «In altre parole», notava il giornale francese, «se le due prime economie dell’Unione recuperassero la loro autonomia monetaria, il franco «posteuro» dovrebbe essere svalutato di circa il 20% rispetto al marco «posteuro». È qui, sempre secondo Le Figaro, il vero deficit della famosa «competitività» rispetto ai tedeschi. Per noi con ogni probabilità la percentuale sarebbe anche maggiore.
di Martino Cerv

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