Maurizio Landini è vissuto su un pero. Un pero alto, isolato dal mondo, magari profumato di fragranze, ma pur sempre un pero.
Un pero che lo ha isolato dal mondo consegnandolo al sognante iperuranio di un “paradiso dei sindacalisti” in cui tutto -come diceva quel mattacchione di Leibnitz provocando il sarcasmo di Voltaire, “è per il meglio”.
Solo così infatti si può dare ragione delle sue esternazioni da quando è diventato il capo della Cgil.
Non passa ormai giorno che Landini non attacchi il governo sulla politica del lavoro.
Si lancia famelicamente su ogni pasto caldo, come ad esempio l’Alitalia il cui piano di salvataggio senza “capitani coraggiosi” prevede un impegno serio dello Stato, oppure sull’Ilva di Taranto.
Dov’era Landini quando il governo Renzi approvava il nefando Job Act? Dov’era quando veniva perpetrata la legge Fornero? Dov’era quando il precariato dilagava e i giovani erano senza alcun reddito e sostegno?
Né si è sentito quando sempre lo stesso Renzi ha portato a compimento l’abolizione dell’articolo 18, che era l’ultima ridotta dei diritti dei lavoratori.
Ed ora che finalmente un governo approva due leggi fondamentali per i lavoratori e cioè il reddito di cittadinanza e la quota 100 per le pensioni si strappa i capelli, urla e strepita e grida: “Sull’Alitalia non ci è stato presentato alcun piano credibile” e poi affermazioni pericolose come “il sindacato deve avere un ruolo in politica” o anche “siamo noi il vero cambiamento”.
Se Landini vuole fare politica si candidi o magari faccia carriera nel Pd o in Leu e si faccia eleggere. Troppo comodo pontificare di politica da un ruolo protetto e privilegiato come quello della guida del maggior sindacato italiano.
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