La spiegazione del corto circuito è semplice, ma ha radici nel passato: sulla testa degli italiani pesano dal 2011 una serie di complesse clausole di salvaguardia attivate – nel pieno della crisi che portò alla caduta del governo Berlusconi – per tutelare i saldi di finanza pubblica. Con la manovra estiva di quell’anno, il governo Berlusconi dispose l’aumento dell’Iva dal 20 al 21% se l’esecutivo non avesse trovato, entro il 30 settembre 2012, 20 miliardi attraverso la “razionalizzazione della spesa”. Alla fine di quell’anno, il governo Monti blindò la clausola con un aumento dell’imposta di 2 punti a partire da ottobre 2012: da 10 a 12 l’aliquota ridotta e da 21 a 23 l’aliquota ordinaria; con un ulteriore aumento di 0,5 punti dal 2014 per arrivare a regime a 12,5 e 23,5%.
Il rischio di acuire ulteriormente la recessione, deprimendo i consumi, convinse Monti a far slittare di qualche mese l’aumento dell’imposta. I successivi governi Letta, Renzi e Gentiloni, riescirono – ma solo parzialmente – a sterilizzare gli aumenti che sono ora rimandati all’inizio dell’anno prossimo. Per evitarli servono 12,5 miliardi per il 2019 e 20 miliardi per il 2020.
Ovviamente, nel programma di governo di tutti i partiti c’è il rinvio dell’aumento, proprio per non pesare sulla domanda interna e sui consumi degli italiani che ancora vacillano, ma senza un governo con pieni poteri le speranze sono ridotte al lumicino.
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