mercoledì 23 maggio 2018

Luca Telese: “Il curriculum di Conte e quello della Fedeli. Vi spiego chi davvero si deve vergognare”

(di Luca Telese – tiscali.it) – Giuseppe Conte ha dopato il suo curriculum, questo è indubbio. Intendiamoci, non ha inventato: ha smussato, aggiustato, enfatizzato gli angoli acuti e illuminato alcuni piccoli punti d’ombra della sua carriera, aggiunto qualche svolazzo, come milioni di italiani fanno ogni giorno con le proprie vite e con i propri sentimenti. Conte di fatto ha provato a inserire qualche lustrino inessenziale alla propria collana di successi, esattamente come centinaia di politici e tecnici che si sono aggiustati il pennacchio prima di lui. Il candidato premier giallo-verde – insomma –  ha fatto un make-up al curriculum.
In questi anni ne abbiamo viste di tutti i colori: ho ancora negli occhi una memorabile scena di Gustavo Selva, che da deputato di An, un giorno, non trovando un taxi per andare a La7, si inventò addirittura un infarto per poter chiamare – con la scusa dell’emergenza – l’ambulanza di servizio di Palazzo Chigi e farsi scarrozzare a Omnibus. Chiese di essere portato dal suo medico curante dando in realtà l’indirizzo degli studi televisivi, e quando gli infermieri fiutando la bufala, si rifiutarono di farlo scendere, Selva li insultò in malo modo.
Infine- vera ciliegina sulla torta – il  deputato di An andò in onda mostrando lui stesso in favore di camera i segni delle flebo appena somministrata. Guardando in camera ed esibendo i polsi spiegò  con orgoglio: “Ho dovuto farmele fare sennò quelli non mi caricavano! Ah ah ah”. Gli infermieri del 118 annunciarono le dimissioni se non si fossero presi provvedimenti. Che ovviamente non arrivarono mai. L’onorevole Gustavo – detto “Radiobelva” – continuó a fare il suo lavoro tranquillo, senza che nessuno gli chiedesse più conto di nulla.
Gonfiare un curriculum con gli strumenti antichi della perifrasi, dell’enfasi e dell’elusione, della sovraccumulazione o della sottrazione del dettaglio, non significa necessariamente mentire. Conte è avvocato e professore – stimato, come sappiamo – e non aveva nessun bisogno di aggiungere che “ha perfezionato i suoi studi” alla Sorbonne o alla New York University.
Conte è laureato davvero, mentre – per dire – l’attuale ministra della pubblicazione in carica no. L’avvocato esercita una professione con piena legittimità, l’unico vero peccato che ha commesso è di aver ceduto alla tentazione è alla seduzione della propria vanità. In Italia, si sa, siamo malati di esterofilia: Conte perfezionava l’inglese, usava le vacanze per scambiare esperienze positive con i suoi colleghi, e ha fatto diventare tutto questo come un modo per aggiungere i nomi altisonanti di alcune prestigiose università alla lista di quelli con cui aveva avuto relazioni, esattamente come un cacciatore aggiunge una tacca al fucile per ogni preda abbattuta, e poi se ne vanta.
Tuttavia una volta fatta questa premessa, occorre abbandonare per un attimo il candidato premier gialloverde, per  provare a spiegare cosa sta accadendo nel meraviglioso mondo dei media, il paradiso del doppiopesismo italiano: quando è capitato a Valeria Fedeli di ritrovarsi ministro con una laurea millantata nel curriculum, nessuno ha usato la parola “falso” in un titolo, nessuno dei giornali mainstream che oggi hanno cannoneggiato su Conte andando a scavare nel minimo dettaglio della sua vita, ha ritenuto che la notizia meritasse la prima pagina (e men che meno un editoriale), non ha dedicato approfondimenti ad una gaffe tanto macroscopica.
I media sono stati molto comprensivi, e mentre sui social infuriava (per tre giorni) la polemica, hanno ritenuto di non dover raccontare nulla su quelle vicende. Solo dopo, quando era diventato impossibile ignorare, è arrivato qualche breve e pudico cenno. All’interessata, nel caso, solo una domanda a margine, in una intervista sulla scuola. Poi tana libera tutti e amen.  Altro episodio.
Quando è accaduto alla ministra Marianna Madia di doversi confrontare con una polemica sul fatto che secondo un software antiplagio applicato da un giornalista alla sua  tesina, quel lavoro potesse essere considerato parzialmente  copiato, per mesi nessuno ha scritto una sola riga sulla vicenda. Nessuno tranne ovviamente Il Fatto (che aveva fatto l’inchiesta). Persino quando la Madia ha annunciato una denuncia contro il quotidiano di Marco Travaglio (quindi, teoricamente, una notizia che poteva essere data a garanzia della buona fede della ministra), un cordone sanitario ha protetta la Madia e la polemica di è sgonfiata. Ancora una volta a raccontare della querela, per paradosso,  sono stati i giornalisti de Il Fatto che ne andavano orgogliosi.  Questo perché, trattandosi di un ministro in carica, nonché di una capace e abile esponente dell’establishment, nessuno è corso a piazzarle un microfono sotto il naso, ha pensato di andare a caccia, di dichiarazioni rubate o di un titolo ad effetto.
Ieri – invece – a Conte hanno rinfacciato le sue posizioni pro-Stamina (poi approdate anche quelle ai titoli di prima pagina di oggi, come se fossero un marchio di infamia), e pochi hanno capito che l’avvocato in quel caso era difensore dei medici imputati. Coloro che adesso si stanno chiedendo indignati: “Ma come?” Dovrebbero tuttavia sapere che Conte difendeva quei personaggi,  esattamente come hanno fatto i loro clienti centinaia di avvocati che hanno popolato le istituzioni. Nessuno ci ha fatto conoscere le loro arringhe usandole come uno strumento di censura: nessuno definisce, giustamente, “difensore dei Palazzinari” un ex ministro che ha patrocinato un costruttore. Nessuno definirebbe Giuliano Pisapia “difensore di terroristi” o addirittura – come in questo caso – “filo-terrorista”.
Infine l’ultima perla: “Conte ha un conto di 52 mila euro con il Fisco”. Questa è la più bella. La notizia dovrebbe essere, piuttosto, che accortosi di una irregolarità nei suoi pagamenti (di 26mila euro, pare) l’avvocato ha pagato subito una multa. Ma siccome Conte è un outsider, siccome non ha relazioni con i giornalisti e direttori, siccome non ha un ufficio stampa che lo protegga, allora tutto fa brodo, tutto si può fare. Difensore di Stamina, bersaglio di Equitalia (malgrado abbia pagato il suo debito, non ora ma anni fa) millantatore di se stesso.
Certo, tutto questo non è bello, ma è vero che è legittimo, anche la disparità di trattamento. Siccome esiste la libertà di stampa, si può anche teorizzare che si possa spulciare ogni dettaglio della biografia di Conte, e non dare nessuna notizia in prima (e spesso anche dentro la filiazione interna del giornale) sul rinvio a giudizio del padre e della madre di un ex premier. O magari sulla casa che un imprenditore gli ha concesso in usufrutto, pagando l’affitto per lui. Tutto questo doppiopesismo può essere considerato sbagliato, ma è del tutto legittimo agli occhi di chi ci dice: “per me quella non è una notizia”. Per quanto non si condivida questo atteggiamenti, non ha senso cedere al vittimismo: basta capire che chi si vuole ergere a simboli dell’anti-sistema si deve mettere in conto che, appena mette un piede in fallo, è assolutamente prevedibile che il sistema giochi al tiro al bersaglio con lui, almeno finché la preda non finisce impagliata. Non c’è nessun golpe, nessun “complotto”, nessun mistero: solo una prevedibile reazione di rigetto.
È evidente però, che se si continuano a dipingere come barbari tutti gli outsider, e a trattare con i guanti di velluto tutti i simpatici peccatori che sono associabili alle elites, si finisce per non essere più considerati  credibili da chi ha scelto l’antisistema. Ed è così radicato nella sua ostilità, questo sentimento, che poi finiscono per non credere agli uomini dell’Establishment per partito preso. Siamo tutti i barbari di qualcun altro. Con o senza curriculum.

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