Il 18 gennaio 1994, nello studio del notaio romano Francesco Colistra, veniva depositato l’atto costitutivo del movimento politico Forza Italia. Soci fondatori sono Silvio Berlusconi, Antonio Tajani, Luigi Caligaris, Antonio Martino e Mario Valducci. La mente, il cervello politico dell’operazione, è però Giuliano Urbani, politologo, professore universitario. Suo era il compito di stendere il programma e infondere nel nuovo partito quelle idee liberali cui il Cavaliere diceva di ispirarsi. Sono passati 25 anni.
Professor Urbani, Berlusconi si ricandida…
Un’operazione che non ha alcun senso politico. Lo dico con amarezza, ma ormai l’ex premier ha esaurito la sua funzione storica. Ha dato le carte per vent’anni, è durato anche più del previsto, ora basta. La sua ridiscesa in campo sarà un insuccesso totale. Gli italiani non gli credono più.
Secondo lei, perché lo fa?
Siamo di fronte a una persona con un ego smisurato. Per lui, gli altri è come se non esistessero. Credo voglia dare sfogo alla sua ambizione personale: pensa ancora di poter contare qualcosa sulla scena politica. E forse di poter difendere meglio le sue aziende.
La stessa motivazione del 1994, quando scese in politica per salvare le aziende.
Di sicuro questo elemento era presente, ma salvando se stesso e le sue aziende, Berlusconi pensava anche di salvare il Paese e di cambiarlo in senso liberale. Poi, purtroppo, col tempo ha prevalso l’interesse personale su quello collettivo. Come molti imprenditori, Berlusconi era liberale nel senso che voleva essere libero di fare come gli pareva. Gli imprenditori, diceva Luigi Einaudi, hanno una visione mefistofelica del liberalismo.
Per questo fallì la famosa rivoluzione liberale?
Sì, ma anche perché nel centrodestra s’imbarcarono personaggi che non avevano nulla a che fare con quelle idee: Fini, Bossi, Casini… Poi Berlusconi fece due errori clamorosi.
Quali?
Innanzitutto non si adoperò mai per una legge elettorale umana, in senso maggioritario, come il doppio turno di collegio. Poi, nonostante la lotta politica con la sinistra, avrebbe dovuto costruire dei ponti con alcuni suoi leader per avviare un dialogo sulle riforme che poteva essere decisivo. A fine anni 90, per intenderci, a fare il commissario europeo si doveva mandare Giorgio Napolitano, non Emma Bonino.
Cosa ricorda dei giorni della discesa in campo?
Un grande entusiasmo, la voglia di fare qualcosa di utile per il Paese, di salvarlo dalla vittoria annunciata della sinistra; la consapevolezza di voler costruire un movimento del tutto nuovo e diverso dagli altri. Vi ho aderito con assoluta lucidità. E ho continuato a crederci, fino al 2005. Poi me ne sono andato.
Lei lasciò la poltrona da ministro dei Beni culturali nel 2005 (secondo governo Berlusconi). Il suo posto fu preso da Rocco Buttiglione.
Non mi sentivo più parte di quel modo di fare politica. Il progetto del grande partito liberale di massa era fallito. Berlusconi e Gianni Letta provarono a convincermi a restare, senza successo.
Oggi Forza Italia, seppur molto indebolita, resiste intorno al 10%…
Perché, di fronte a un sempre più ridotto elettorato di centro che guarda a destra, ha ancora una veste presentabile, a differenza della Lega che, solleticando gli istinti più beceri e populisti, presentabile non è. A parte questo, dal 1994 è rimasto solo il nome: ormai è un partito morto, finito. Senza Berlusconi, si sgretolerebbe in due ore.
Non ha trovato un delfino.
Perché Berlusconi non l’ha mai voluto: lui vuole comandare in totale solitudine. E si è circondato solo di yesmen. Ma poi, guardi, in realtà Berlusconi detesta la politica: la vita di partito, la competizione sul territorio, la gestione delle alleanze, sono cose che lo annoiano moltissimo. Per questo FI è una creatura a sua immagine e somiglianza che finirà con lui
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