La neve copre quello che resta di Accumoli e Amatrice. Macerie nascoste, dimenticate, tendopoli e Sae, un avvilente acronimo che sta per soluzioni abitative di emergenza
Case di carta nel vento ghiacciato di questo inverno così uguale a tutti gli altri. Non ne parla più nessuno, cartoline stracciate, quasi un’assuefazione al terremoto, un’abitudine alla scossa, la terra si muove, ma meglio è dirottare altrove la polvere delle parole. Qualche sfilata di repertorio mentre il presepe è immutato.
Più giù, più in là, in mezzo al mare, dove basta cambiare la posizione delle vocali e Sae diventa Sea, Sea watch, allora i migranti, quelli sì, fanno notizia e compassione molto più degli stanziali d’Abruzzo, lo strazio di donne e bambini alla deriva merita il soccorso, mentre le donne e i bambini, avvolti dal freddo e dalla paura, fanno ormai parte del passato, nemmeno prossimo. Non più pastori dannunziani che lasciano gli stazzi per andare verso il mare, ma un gregge che esiste e resiste sul luogo della tragedia, rassegnato alla disperazione. Tre anni non sono nulla, fanno parte dell’ordinaria amministrazione, c’è addirittura Messina che si porta appresso dal millenovecentootto la vergogna delle baracche dopo il sisma maledetto, un secolo e più di governi, regimi, monarchie, repubbliche per lasciare le cose come stavano e come debbono essere. Accade, invece, che su quella magica isola siciliana, rotoli la lava di figure rivoluzionarie e ribelli contro le istituzioni contemporanee, dopo aver convissuto, da complici, con gli attori del degrado sociale e morale.
È la cronaca miserabile di questi giorni, è il buio che non appartiene soltanto alle notti in mare o sotto una tenda al gelo, è la differenza di emozioni, è la serie A e la serie B delle commozioni, è Saviano scrittore che si sente autorizzato a dare del pagliaccio a un ministro, dimenticando le giullarate di partiti e governanti, suoi sodali o fiancheggiatori, che dei terremotati non hanno più ricordo, se non elettorale. La gente d’Abruzzo si appresta a festeggiare un santo, Antonio Abate, lo farà, come sempre e per sempre, dando fuoco, in piazza, ai torcioni, si sfamerà di granturco cotto, i cicerocchi, non chiederà elemosine governative o statali, avendo capito di non essere ormai più utile a nulla, se non alla propria sopravvivenza.
È un popolo dimenticato dalla prostituzione dei politici e degli intellettuali a gettone. Non ci sono porti per il loro approdo, sono naufraghi sulla terra, zatteranti senza bandiera, guardano la tivvù e scoprono che esistono sofferenze degne di maggiore, anzi di migliore attenzione. Hanno perso le loro dimore, ma non hanno smarrito la loro storia, la loro dignità. Altri, semmai, hanno perduto il pudore del silenzio. Sono macerie di vita.
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