venerdì 6 aprile 2018

Notizia censurata da tutti, ma quello che è uscito sul M5S fa tremare i potenti. Ecco cosa pensano all'estero..

Vocidallestero.it ha tradotto l’editoriale di Luigi Zingales per la rivista “Foreign Policy”.
Voci dall’Estero riassume così il pezzo: “Luigi Zingales, uomo dell’establishment ma anche suo critico, sembra sorprendentemente augurarsi che l’esito delle elezioni del 4 marzo possa portare finalmente a una contrapposizione vera tra ltalia e UE. Dichiarato senza giri di parole che i problemi della moneta unica erano ben noti fin dal principio, che la crisi degli spread è stata cinicamente manovrata dalla BCE per fini politici, e che l’establishment italiano finora ha preferito barricarsi dietro le istanze europee (anziché opporvisi) per aggirare così il processo democratico, Zingales sembra augurarsi che l’Italia possa finalmente voltare pagina. La presenza di due importanti partiti “populisti” in Italia, anziché di uno solo, secondo Zingales è un bene, a patto che i due non si uniscano in coalizione, perché così mentre uno dal ruolo di governo svolgerebbe delle trattative con l’Europa, l’altro potrebbe presentarsi come spauracchio per un’alternativa ancora più radicale in caso di fallimento […]”
Riportiamo di seguito la traduzione dell’articolo di Zingales:
“Le recenti elezioni italiane rappresentano per l’Europa un colpo più duro di quello della Brexit. I britannici, dopotutto, erano sempre stati euroscettici. Il Regno Unito aveva aderito all’allora Comunità Economica Europea tardi e con riluttanza, e per la maggior parte degli ultimi 45 anni la maggioranza dei britannici non ha visto l’Unione europea come qualcosa di vantaggioso. Il voto sulla Brexit è stato poco più che la legittimazione politica di un’avversione già presente e profondamente radicata.
Al contrario l’Italia, uno dei paesi fondatori della comunità europea, è sempre stato un paese eurofilo. Storicamente più dell’80 percento degli italiani vedeva benefici nell’appartenenza all’UE. Quando il 4 marzo gli italiani hanno votato in massa per partiti euroscettici non lo hanno fatto perché detestano l’Europa, ma perché hanno sentito che l’Europa li stava rovinando. Una coalizione che includa almeno uno di questi partiti formerà, con ogni probabilità, il prossimo governo italiano.
Ora la questione critica – non solo per l’Italia, ma per tutta l’Europa – è cosa potrà realmente fare un nuovo governo italiano, con nuovi partiti e nuovi uomini politici. Ciò dipenderà dalla capacità della classe politica populista, non ancora messa alla prova, di trovare punti su cui fare leva per opporsi efficacemente al resto dell’Europa. E i populisti italiani, se saranno creativi, potranno farcela.
È l’economia, stupido!
Prima delle elezioni italiane il prestigioso giornale tedesco Der Spiegel pubblicava un pezzo che descriveva l’Italia come un paese di bambini che votano per dei clown. Era un articolo ovviamente offensivo. Ma ha anche dimostrato la completa mancanza di comprensione della situazione politica italiana. Per gli elettori italiani – per parafrasare James Carville, ex consigliere politico del presidente USA Bill Clinton – “è l’economia ed è l’immigrazione, stupido!”.
La crisi economica italiana inizia nel 2008 ed è confrontabile alla crisi degli anni ’30 in Germania: tre grosse banche sono crollate, il 30 percento delle aziende sono fallite, la disoccupazione ha raggiunto il 12 percento, quella giovanile il 35 percento, e centinaia di migliaia di persone brave e capaci sono costrette a lasciare il paese ogni anno per cercare lavoro all’estero. Dati questi numeri, ciò che sorprende non è il voto di protesta, ma semmai quanto questo voto di protesta sia stato contenuto. Il Movimento Cinque Stelle (che ha ottenuto circa il 32 percento dei voti) è più simile al partito mainstream tedesco dei Verdi che non all’estrema sinistra della Linke, ed è chiaramente più moderato dei partiti anti-establishment come Podemos in Spagna e Syriza in Grecia. Al contempo la Lega (che ha ottenuto il 17 percento dei voti) è più moderata rispetto ad Alternativa per la Germania, che nelle scorse elezioni nel paese tedesco ha preso il 13 percento dei voti nonostante una disoccupazione ad appena il 3,6 percento e un reddito pro capite che negli ultimi due decenni è cresciuto del 30 percento.
Se l’Europa non è certamente l’unico colpevole della pessima situazione economica dell’Italia, non si può nemmeno dire che sia senza colpe. Il progetto di una moneta unica europea conteneva grossi difetti – tra cui la combinazione di rigide regole di bilancio e la mancanza di stabilizzatori automatici (come ad esempio l’assicurazione sulla disoccupazione negli USA, un sistema pagato in parte coi fondi federali) – e questi difetti erano ben noti ai suoi creatori, anche a quelli italiani. Nonostante questi ben noti difetti (e l’insorgere di una enorme crisi), nel corso degli ultimi 20 anni non è stato fatto nessun passo avanti per correggerli.
Altri problemi sono diventati evidenti solo durante la stessa crisi dell’euro – ad esempio la mancanza di un meccanismo per un intervento rapido volto a evitare il panico sul mercato dei titoli pubblici. Qualsiasi paese con una situazione fiscale precaria come quella italiana deve sapere che la banca centrale è pronta a intervenire per sostenere il debito pubblico in caso di una crisi di fiducia. Si vedano le differenze tra i rendimenti dei titoli del Regno Unito e quelli della Spagna dopo la crisi finanziaria. I due paesi avevano livelli di debito e di deficit molto simili. Ma il mercato ha preteso dalla Spagna, non dal Regno Unito, rendimenti maggiori dei titoli, per il fatto che c’erano incertezze sulla volontà della Banca centrale europea (BCE) di intervenire in caso di necessità.
A dire il vero la BCE alla fine è intervenuta, sia nel caso spagnolo che in quello italiano, ma solo dopo un lungo indugio. Il ritardo nell’intervento non era dovuto a incompetenza, ma all’esplicito desiderio di imporre la “disciplina di mercato” – sarebbe a dire, mettere pressione sul governo affinché migliorasse la sua situazione fiscale. È stata una sorta di waterboarding economico (una forma di tortura nota come “annegamento simulato” o “sottomarino”, ndt) che ha lasciato l’economia italiana devastata e gli elettori italiani legittimamente infuriati verso le istituzioni europee.
… Ma c’è anche l’immigrazione
Nel frattempo l’immigrazione ha giocato un ruolo importante (e uno potrebbe dire sproporzionatamente importante) nelle elezioni USA del 2016 e nelle elezioni tedesche del 2017, e lo stesso ha fatto anche nelle elezioni italiane 2018. In Italia, però, il problema immigrazione è fondamentalmente diverso da quello degli Stati Uniti e della Germania. Molti degli immigrati non vogliono stabilirsi in Italia. Si trovano in Italia solo come paese di passaggio per raggiungere successivamente la Francia, la Germania e il Regno Unito.
Ma allora perché gli italiani sono così risentiti sull’immigrazione? Perché le regole europee sono progettate affinché il paese di arrivo (che generalmente è l’Italia) sopporti tutti i costi dell’assistenza. È come se tutti gli immigrati degli Stati Uniti passassero per il New Mexico, e fosse questo stato ad essere il responsabile esclusivo della loro assistenza, tramite il proprio bilancio statale – con la differenza ulteriore che gli immigrati che arrivano nel New Mexico possono liberamente muoversi verso il resto della nazione, mentre gli immigrati che arrivano in Italia non possono. La scorsa settimana i media italiani hanno riportato il caso di una donna nigeriana incinta, che stava morendo di cancro e al contempo stava cercando di raggiungere la propria sorella in Francia per affidarle il bambini, ma è stata respinta dalla polizia francese verso l’Italia, dove è morta.
Per aggiungere al danno la beffa, la crisi migratoria italiana è un disastro di matrice europea. L’intervento europeo che ha distrutto il paese libico – paese che ora è terreno fertile del terrorismo e dell’immigrazione illegale – è stato voluto dall’allora presidente francese Nicolas Sarkozy, che intendeva accrescere il potere della Francia all’estero e forse anche nascondere la provenienza del denaro che si dice abbia ricevuto dal leader libico Muammar Gheddafi per la sua campagna elettorale.
Certo, l’UE non è l’unica parte in causa nella crisi migratoria italiana. Il governo italiano ha firmato volontariamente la Convenzione di Dublino, che assegna il peso dell’immigrazione al paese di sbarco (sebbene la stessa Convenzione implichi anche che ciascun paese debba farsi carico di una quota di migranti, e la maggior parte dei paesi ha rifiutato), e ha, seppure in modo riluttante, seguito Sarkozy nell’avventura militare libica.
Dov’è la speranza?
Il quadro della situazione che ho tracciato finora è piuttosto desolante. C’è un lato positivo? Sì, e si trova nel senso di urgenza scatenato dal risultato delle elezioni italiane. Già prima che i voti italiani fossero scrutinati, il presidente francese Emmanuel Macron aveva iniziato ad ammettere che l’Italia era stata lasciata sola nella crisi dell’immigrazione. La settimana seguente Macron ha incontrato la cancelliera tedesca Angela Merkel per riaffermare la necessità di una riforma delle politiche europee e condividere meglio il peso dell’immigrazione in tutto il continente.
Ciò che sta spingendo l’attivismo di Macron non è solo la sua ambizione di scrivere la storia come demiurgo di una nuova Europa. È anche la consapevolezza che – se non ci sarà una opportuna reazione – il voto italiano potrebbe alla fine portare all’uscita dell’Italia dall’euro, un’uscita che la Francia non può permettersi. Se la forte economia tedesca potrebbe funzionare anche in una più ristretta unione monetaria dei paesi nordici, lo stesso non si può dire della Francia. Un’Italia con una moneta svalutata sottrarrebbe alla Francia quote di mercato in molti dei suoi più importanti settori economici, dall’agroalimentare al settore automobilistico, fino al settore dei servizi bancari, per non parlare del turismo. È già abbastanza difficile per la Francia mantenere il suo costoso stato sociale e al contempo competere alla pari con le aziende tedesche. Le diventerebbe impossibile continuare così se le aziende italiane riuscissero facilmente a prevalere su quelle francesi grazie a una moneta svalutata. Uno scenario di “Quitaly” [in italiano diremmo “UscITA”, NdVdE] sarebbe il più grande regalo politico che una indebolita Marine Le Pen potrebbe ricevere ora – ed è per questo che Macron intende fare tutto il possibile per evitarlo.
Il problema è che il suo potere può essere limitato. Qualsiasi riforma richiede il consenso del resto dell’Unione e, soprattutto, della Germania. Gli elettori tedeschi sono terrorizzati all’idea di diventare i finanziatori di ultima istanza di un’Europa in fallimento. Per questa ragione i politici tedeschi si oppongono a qualsiasi forma di accordo per una condivisione dei rischi, sia pure la più modesta e ragionevole, come quella di un deposito assicurativo comune per le banche supervisionato dalla BCE. È come se lo stato di New York avesse insistito che fosse la California a ripianare interamente le perdite che il fallimento di IndyMac ha inflitto alla Federal Deposit Insurance Corp.


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