martedì 17 gennaio 2017

"Ringraziate Iddio che esiste il M5S". Giannuli in diretta a La7 mette tutti a tacere


di Marco Travaglio
La figuraccia rimediata dai 5Stelle, che votano per abbandonare l’alleanza tattica con l’Ukip di Farage ed entrare nel gruppo Alde dei Liberali Europei, ma ne vengono respinti sull’uscio, la dice lunga sulla fase di transizione che sta vivendo il movimento. La parola chiave è “establishment”, usata da Grillo l’altroieri per caldeggiare la svolta (“per incidere sul risultato di molte decisioni importanti per contrastare l’establishment europeo”) e ieri per spiegare il dietrofront dei possibili partner (“l’establishment ha deciso di fermare l’ingresso del M5S nel terzo gruppo più grande del Parlamento Europeo… Tutte le forze possibili si sono mosse contro di noi. Abbiamo fatto tremare il sistema come mai prima”). L’establishment è l’insieme di poteri costituiti che i movimenti anti-sistema come i 5Stelle contestano e vogliono abbattere con sistemi democratici. Ma dei quali, contemporaneamente e paradossalmente, hanno bisogno per condurre una battaglia democratica secondo le regole. È lo stesso paradosso in cui si dibattono le sindache pentastellate di Roma e Torino: con minor fortuna Virginia Raggi, con maggiore fortuna Chiara Appendino. E questo non perché, come si dice, la prima sia una capra e la seconda un genio, ma proprio per la diversa qualità degli establishment delle due città: buono o almeno decente, per quanto chiuso e autistico, quello torinese; pessimo e inquinatissimo quello romano.
A Torino l’Appendino è entrata in una struttura comunale indebitatissima, ma sostanzialmente sana e disponibile, infatti vari pezzi di società civile hanno iniziato a collaborare con lei, che a fine anno ha rimodellato la sua rivoluzione gentile spiegando che non tutto il passato è da buttare: la Torino che conta ha accettato l’idea di essere governata da un’estranea al salottino sabaudo dei soliti noti. A Roma la Raggi è entrata in una cloaca a cielo aperto, inquinata e refrattaria a ogni cambiamento, s’è fidata di pezzi del vecchio establishment che le parevano sani ma si sono rivelati infetti e, quando ha cercato di aprirsi alla società civile, ha trovato solo porte sbarrate: la Roma che conta non ha ancora digerito l’avvento della sindaca “marziana” e – specie dopo il No alla mangiatoia olimpica – non ha rinunciato all’idea di mandarla a casa per tornare ai vecchi giochi e abbuffate. Il crinale su cui camminano i 5Stelle è come la corda dell’equilibrista. Se si scontrano con l’establishment, ne vengono stritolati e massacrati (complici le tv e i giornaloni di regime) e presto o tardi vanno a casa.
Se invece tentano di cooptarne qualche pezzo, se lo ritrovano sotto inchiesta o in galera (vedi i casi Muraro e Marra), o ne vengono respinti come corpi estranei (vedi l’Alde, che prima sigla l’intesa con Grillo e Casaleggio, poi si spacca e rinnega l’accordo). Comunque vada il risultato – almeno all’esterno – è sempre lo stesso: caos, dilettantismo, sprovvedutezza, incapacità, inaffidabilità. L’unica buona notizia è che i vertici del M5S si pongono il problema di uscire da questa spirale e di sfidare i detrattori abbandonando il ribellismo fine a se stesso e costruendo una nuova struttura e una nuova immagine all’altezza delle aspettative di una forza che si candida a governare e rappresenta ormai quasi un terzo dell’elettorato. Non sempre le soluzioni sono azzeccate, ma almeno testimoniano la scoperta della politica, con le regole e i pragmatismi che si impongono con numeri così grandi e traguardi così alti: prima la fine dell’assurdo ostracismo televisivo e il direttorio, poi il codice etico, ora la ricerca di una collocazione europea più credibile e domani – chissà – qualche alleanza (specie se la nuova legge elettorale sarà proporzionale). Ogni mossa scontenta qualcuno e fa perdere qualche migliaio di voti: ma se almeno 10 milioni di italiani dichiarano di voler votare 5Stelle, non si può pensare che siano tutti grillini della prima ora. Anche qui l’equilibrismo di uscire dall’isolamento senza perdere l’identità-diversità è rischioso e riguarda, ancora una volta, il rapporto con gli establishment: della politica, della burocrazia, delle professioni, dell’economia, della cultura, dei media, dell’Europa. Senza e contro di loro, si soccombe. Ma con loro si rischia di soccombere ugualmente.
La via di mezzo è costruire una classe dirigente propria, che finora non c’è, e con quella rapportarsi con gli establishment da posizioni di forza, non col cappello in mano. Ma le classi dirigenti non si inventano dalla sera alla mattina. E questo lo sa anche Renzi, che tre anni fa proprio in questi giorni calò su Roma nell’illusione di essere pronto a governare e partorì un’accozzaglia di vecchie muffe della tanto vituperata casta che prometteva di rottamare, con l’aggiunta di quattro amici al bar del tutto inadeguati alla sfida (le Boschi, i Lotti, i Campo Dall’Orto). E lo sanno anche nel centrodestra dove, evaporato (o ammanettato) il partito-azienda di B., si aggira nel pollaio una miriade di galletti senza truppe e soprattutto senza idee. Ci si può consolare con la crisi delle élite in quasi tutto il mondo. Oppure ci si può porre il problema di come far nascere nuovi establishment in grado di sostituire i vecchi, che hanno fatto danni incalcolabili ma resistono per mancanza di alternative. Ci vogliono scuole, corsi, insegnanti e soprattutto idee. Da domani, senza la pretesa di avere la soluzione in tasca, il Fatto ascolterà sul tema molti pareri informati e autorevoli e ne farà una campagna per tutto il 2017, con la stessa cocciutaggine con cui nel 2015-2016 abbiamo combattuto lo stravolgimento della Costituzione. Vedi mai che venga fuori qualche buona proposta. E che qualcuno la raccolga

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