L’ex ministro Minniti puntò solo sul governo Serraj. Ora la Francia ha un canale privilegiato con Haftar
di Gian Micalessin per Il Giornale
La via italiana alla Libia è già stretta, ma la Francia di Emmanuel Macron potrebbe sfruttare gli scontri di Tripoli per trasformarla in un vicolo cieco.
Di certo il «nemico» francese è stato fin qui più abile spiazzando l’Italia e presentandosi come l’ago della bilancia capace di mettere d’accordo il governo di Tripoli del premier Fayez Al Serraj e quello di Tobruk «manovrato» dal generale Khalifa Haftar. Se gli scontri di Tripoli arrivassero a far cadere Al Serraj, Parigi avrebbe facile gioco nel proporsi come nuovo referente internazionale, guidare il Paese verso le elezioni-farsa proposte dalla Francia per il 10 dicembre e far eleggere alla presidenza un uomo del Generale. Un giochino ardito che rischia, però, di piacere molto a un’Unione europea invelenita con l’Italia. Un giochino che mette a rischio non solo il nostro gas e il nostro petrolio, ma anche il controllo sulle partenze dei migranti garantito dalla Guardia Costiera di Tripoli.
Certo molti errori arrivano da lontano. Quando, nel 2015, Marco Minniti prende in mano il dossier Libia punta innanzitutto a insediare un governo «amico» in quella Tripolitania dove un esecutivo guidato da milizie jihadiste minaccia il petrolio e il gas dell’Eni e ci ricatta con i migranti. Da quella scelta derivano molte leggerezze. La prima è lo sbilanciamento verso Serraj, che nella fase di formazione del governo di Accordo Nazionale, a fine 2015, sfocia in aperta ostilità verso Haftar spingendolo nelle braccia di Parigi. E quando Minniti si decide a fargli visita nel settembre 2017 è tardi per rimediare. La seconda nefasta eredità è lo sciame di milizie jihadiste, o para-criminali, a cui dobbiamo affidarci per garantire la sopravvivenza dell’inconsistente Serraj. Milizie come la Settima Brigata di Tarhouna vendutasi, secondo molte voci, agli interessi di Haftar. Un terzo danno collaterale deriva dalla prolungata concentrazione nelle mani di Minniti di un dossier Libia che andava almeno condiviso con la Farnesina. Da qui, anche, la farraginosità dell’attuale esecutivo nel ricomporre il puzzle. Una farraginosità testimoniata dalle visite a Tripoli di Matteo Salvini, del ministro della Difesa Elisabetta Trenta e del titolare degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. Tre visite in un mese (26 giugno-25 luglio) che non hanno chiarito chi gestisca il dossier.
In questo vuoto di potere e politiche hanno lavorato alla grande il ministro degli Esteri francesi Jean-Yves Le Drian, vero pro-console libico di Macron, e un’intelligence di Parigi attivissima nel recuperare al carro di Haftar le milizie rimaste al palo nella spartizione di quei proventi che Serraj deve «obtorto collo» suddividere per non farsi defenestrare. Ma il governo giallo-verde è stato lentissimo anche nello sfruttare il regalo di un Trump che durante la visita del nostro premier Giuseppe Conte alla Casa Bianca confermò l’Italia nel ruolo di principale referente degli Stati Uniti sul fronte libico. Dopo quell’investitura, invece di avviare un’immediata azione politica e bloccare i piani elettorali francesi abbiamo puntato tutto sulla Conferenza internazionale di Sciacca. Un appuntamento cruciale, vista la partecipazione del segretario agli Esteri Usa Mike Pompeo e dell’omologo russo Sergey Lavrov, ma previsto solo per novembre quando Serraj potrebbe esser già caduto.
A questo vuoto politico s’è aggiunta la sapiente delegittimazione dell’ambasciatore a Tripoli Giuseppe Perrone dichiarato persona «non grata» da Tobruk per aver criticato il piano elettorale di Parigi. Una delegittimazione non priva di riflessi pratici. Perrone, infatti, risulta «in vacanza» proprio mentre l’Italia e Tripoli avrebbero più bisogno di lui. A questo punto uscire dall’impasse non è facile. Se l’Europa è lontana, ancor più lontano è ormai un Trump troppo assillato dalla sua stessa stabilità per dedicarsi a una Libia marginale negli interessi americani. Se in qualcuno possiamo sperare gli unici sono, forse, l’Egitto e la Russia. Sono i migliori alleati di Haftar assieme a Macron. Ma sono i primi a voler ridimensionare il peso di una Francia che nel 2011 ha portato al disastro la Libia.
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