Invece il varco era quello giusto: Abdoulaye Mbodj, 33 anni, è il primo avvocato africano, con la pelle nera nera, di Milano. Ma questo è solo il primo pezzo di una storia che è una fuga dalla povertà ma anche dagli stereotipi e dai pregiudizi che la miseria si porta dietro. «Mio padre Alioune – racconta lui – è arrivato da Dakar nell’88 come clandestino. Per due anni, faticosissimi, ha venduto gli accendini come tanti vu cumprà». Abdoulaye Mbodi si ferma un attimo e quasi si commuove: «È lui il vero eroe di questa storia. Lui voleva dare un futuro migliore ai suoi tre figli e per questo ha affrontato e superato tutti i possibili sacrifici».
Nel 90 la svolta: arriva una sanatoria, e l’irregolare esce allo scoperto. Si inserisce nel tessuto sociale lombardo, trova lavoro come operaio e poi camionista. «Nel 91 è arrivata dal Senegal mia mamma che ora fa la baby sitter, e con lei anche noi due: io e mia sorella. Il terzo fratello è nato qua». Nell’Italia della mancata integrazione e delle polemiche feroci sui migranti, la storia di questa famiglia umile ma volenterosa, rompe gli schemi e apre squarci di speranza. «Ho studiato legge alla Cattolica e papà è stato chiaro: se vai fuoricorso perdi l’opportunità di andare avanti perché per tuo padre e tua madre pagarti la retta è un grande sacrificio. Mi sono laureato in corso con 110 e lode, non li ho traditi e devo ringraziare anche la Cattolica: io musulmano ho dato gli esami di teologia e ho imparato il dialogo fra culture diverse». Poi fra il 2011 e il 2012 il grande balzo: «Mi sono preparato per l’esame e l’ho passato al primo colpo, a Milano, dove la selezione è fortissima e, almeno in quella tornata, l’80% dei candidati è stato bocciato».
Il figlio del venditore di accendini è entrato nel foro ambrosiano. E la sua faccia vincente è una di quelle che hanno animato la mostra Nuove generazioni. I volti giovani dell’Italia multietnica, ospitata a Palazzo dei Giureconsulti, a due passi dal Duomo, nelle scorse settimane, e curata da Giorgio Paolucci. Ma lui non ci sta a fare la parte del fenomeno, come il protagonista di una favola a lieto fine che si recita a Natale e poi viene dimenticata per tutti gli altri giorni dell’anno. E allora Abdoulaye allarga: «Mia sorella oggi è ingegnere e segue gli scavi della linea blu della Metropolitana. L’altro fratello, che vive ancora con i genitori a Casalpusterlengo, in provincia di Lodi, è perito agrario».
Ce l’hanno fatta tutti e tre. Ma l’avvocato Mbodj non è ancora soddisfatto e comincia a picconare la gabbia di luoghi comuni in cui potrebbe restare imprigionato: «Tutti mi chiedono se sono l’avvocato dei clandestini e dei migranti e se difendo i loro diritti. E io rispondo no e ancora no: io sono un avvocato e faccio l’avvocato, seguendo la mia inclinazione. Mi occupo di penale bianco, al confine con il diritto amministrativo. La lotta alla corruzione e al malaffare negli ospedali e negli enti pubblici. Un mondo interessantissimo. Sono stufo di essere catalogato in base alla mia origine, come se fosse un marchio a vita». E questo diventa un paradigma più generale: «Discuto spesso con i miei amici senegalesi che hanno l’obiettivo di lavorare nei Caf e nei patronati dei sindacati per occuparsi solo del rinnovo dei permessi di soggiorno o del bonus bebè: Ragazzi, uscite dal ruolo segnato dalla vostra storia. Io sogno che uno diventi prefetto a Piacenza, l’altro questore a Monza, e il terzo primario ospedaliero a Lodi. È questa la vera integrazione». Che richiede responsabilità da tutte e due le parti: la disponibilità ad accogliere e l’impegno per meritare quell’accoglienza. Ma Mbodj sa che non è facile e cita come una bussola una frase del cardinal Martini: «Chi è orfano nella casa dei diritti difficilmente sarà figlio nella casa dei doveri».
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