L’Espresso non ha diffamato D’Alema, il politico condannato a pagare le spese
L’ex presidente del Consiglio aveva citato a giudizio il nostro giornale per un’inchiesta sugli “amici” di alcuni esponenti della sinistra. Ma il giudice ha respinto la sua istanza definendo la vicenda su cui avevamo indagato “di innegabile interesse”
L’ex presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, è stato condannato dal giudice della sezione civile del tribunale di Roma, Marzia Cruciani, al pagamento delle spese processuali nei confronti de L’Espresso, dopo che il magistrato ha respinto l’azione promossa dal politico contro il giornale e i giornalisti, diretta ad ottenere il risarcimento dei danni per un’inchiesta su affari e politici pubblicata cinque anni fa.
D’Alema aveva citato a giudizio Lirio Abbate, oggi vicedirettore del settimanale e il direttore dell’epoca, Bruno Manfellotto, per l’inchiesta dal titolo “ Larghe intese larghi affari ” che raccontava nell’ottobre 2013 degli appalti per la Tav di Firenze dove spuntavano “amici” di esponenti politici di sinistra, «uniti per spartirsi tutto».
Abbate raccontava degli sviluppi dell’inchiesta giudiziaria «relativa ad un gruppo di soggetti istituzionali, di imprenditori e di politici che avrebbero agito per “spartirsi” appalti pubblici, di notevole rilevanza economica» scrive il giudice nella sentenza. Nell’articolo si faceva riferimento all’imprenditore Roberto De Santis, indicato come “molto vicino a Massimo D’Alema”, che per il giudice questo collegamento fra i due «non appare artificio del giornalista, ma è operato dagli inquirenti».
Nella sentenza viene rilevato che è «innegabile l’interesse della vicenda» raccontata. E per il giudice il testo scritto da Abbate non ha diffamato D’Alema. «I titoli non appaiono travisare il contenuto degli atti giudiziari, da cui traggono spunto, né suggerire nuove o diverse ipotesi accusatorie», scrive il magistrato.
Abbate, Manfellotto e L’Espresso sono stati difesi dagli avvocati Virginia Ripa di Meana e Vanessa Giovannetti.
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