domenica 2 settembre 2018

MI AVEVA SBATTUTO IN GALERA SENZA AVERE LE PROVE: il PM rosso anti-Salvini? Parla l’avvocato che da anni lo combatte senza sosta: fu lui la prima vittima politica del sedicente Procuratore

In attesa di vedere che sorte avrà l’indagine per sequestro di persona e altri gravi reati aperta contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini, dal curriculum del suo protagonista, il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, emergono precedenti non tutti tranquillizzanti.
In almeno un caso, all’eclatante impatto mediatico delle manette scattate con la benedizione di Patronaggio è seguita la totale sconfessione dell’operato della Procura siciliana da parte sia del Riesame sia della Cassazione. Accade, fa parte del gioco: ma, almeno in quel caso, si può dire che le manette erano state usate a sproposito. Per non parlare di quanto accade dopo: davanti allo smantellamento delle accuse, Patronaggio non fa nessuna delle cose che potrebbe fare: non va avanti con l’inchiesta, ma nemmeno l’archivia. Semplicemente la lascia lì, a mollo, per due anni, con buona pace della legge che imporrebbe, a termini scaduti, di tirare le fila.
Il caso finì sulle prime pagine e in tv: a venire sbattuto in galera fu l’avvocato Peppe Arnone, personaggio stranoto in Sicilia tanto per le sue battaglie ambientaliste e antimafia quanto per il carattere focoso ed estroverso: a lungo tessera del Pci, poi del Pd, oggi dichiarato elettore grillino benché «berlingueriano e latorriano». Il 12 novembre 2016 la Procura lo fece arrestare in flagrante per estorsione, all’uscita dello studio di un collega con due assegni in tasca per un totale di 14mila euro. La prima tranche ottenuta in seguito a un ricatto bello e buono, per la Procura. Una normale transazione, condotta alla luce del sole per conto di una cliente, secondo Arnone.
Il gip conferma l’arresto. E in difesa del pm che ha disposto la cattura di Arnone scende in campo Luigi Patronaggio, all’epoca di fresca nomina a procuratore di Agrigento, che il 13 novembre dirama un comunicato stampa (ovviamente «al fine di fornire alla opinione pubblica una corretta e non fuorviante rappresentazione dei fatti») parlando di «robuste prove» a carico dell’avvocato. Dopo tre giorni di galera Arnone va ai domiciliari, ma il 25 novembre la Procura ottiene che sia rimesso in galera.
Sullo sfondo si muovono ombre tutte siciliane: fantasmi e veleni. Arnone dal carcere fa sapere di ritenere il suo arresto conseguenza diretta della guerra condotta ai «poteri forti» che governerebbero la città, patria dell’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano: poteri forti di cui secondo Arnone farebbero parte a pieno titolo anche pezzi della magistratura, cui – con espressione decisamente vivida – l’avvocato «berlingueriano» rimprovera di «avere calpestato le leggi dello Stato come uva da mosto».
Vero, non vero? Sta di fatto che dopo essere stato rimesso in cella, Arnone fa ricorso al tribunale del Riesame. E qui la tesi della Procura viene fatta a pezzetti, i giudici scrivono che una estorsione come quella teorizzata dai pm, passata da avvocati ad avvocati e pagata alla luce del sole, non si è mai vista: «Una condotta così veicolata e una richiesta di denaro avanzata e soddisfatta con assegni circolari, per altro posta in essere da un avvocato penalista, non appare certo univocamente sintomatica» né del reato di estorsione e nemmeno di quello assai più blando di «esercizio arbitrario delle proprie ragioni». Patronaggio non si arrende, e ricorre in Cassazione: il 6 aprile 2017, nuova batosta per la Procura, che reagisce abbandonando il fascicolo in un cassetto. E ora Arnone si prende una piccola rivincita. Scrive a Matteo Salvini: «Io Patronaggio lo conosco bene. Se vuole, la difendo io».

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