Quando un profano lo legge, capisce subito una cosa. La finanza si prepara a ItalExit, o almeno tiene in forte considerazione l’uscita del nostro Paese dall’euro. Mentre la politica ha confinato a movimenti politici che vengono definiti populisti, la questione dell’uscita dall’euro, nei salotti che contano si fanno già le simulazioni su quanto ci verrebbe a costare. Lo studio di Mediobanca è molto rigoroso e si limita a mettere in fila i costi e i vantaggi del ritorno alla lira. Una cosa è certa, più il tempo passa, sostengono gli analisti, e più costerà abbandonare la moneta unica. È la sintesi dei loro calcoli.
NON È PER SALVINI CHE USCIAMO DALL’EURO
Lo studio di Mediobanca, che pure considera cruciali le elezioni prima in Francia e poi in Olanda e prevede quelle italiane a fine legislatura, affida la sua analisi sui costi dell’uscita dall’euro, essenzialmente a ragioni di tipo economico. La prima questione è che la moneta conta. Eccome, quando si parla di produttività italiana. Il nostro differenziale con la Germania e la Francia è del 20 per cento. Una roba da pazzi: è come correre una gara con Bolt, e per di più azzoppati. Tre momenti storici hanno determinato questo stato di cose. Nel 1979 quando siamo entrati nel serpente monetario con una banda di oscillazione del sei per cento, poi nel 1989 quando la forchetta l’abbiamo abbassata al 2,25 per cento e infine nel 1996 quando abbiamo addirittura rivalutato la lira dell’8 per cento per riuscire ad agganciare il nascente euro.
Da quel momento in poi è stato un tracollo. Negli ultimi quindici anni la ricchezza italiana (il Pil) non è cresciuta di un euro. Dal 2008 ad oggi il Pil è sceso di sette punti percentuali. Le conseguenze si vedono nei portafogli delle banche pieni zeppi crediti inesigibili.
SENZA PIL IL DEBITO NON REGGE
Senza crescita non solo siamo più poveri, ma non riusciamo a ripagare il debito. Eppure Mediobanca nota come negli ultimi quindici anni (escluso il 2009) abbiamo sempre avuto il maggior avanzo primario d’Europa. La facciamo semplice: lo Stato ha incassato dalle nostre tasse più di quanto abbia speso. Alla fine i conti pubblici finiscono comunque in rosso, poiché il ragioniere dello Stato ha dovuto pagare gli interessi sul debito: ma senza questo costo (l’avanzo primario, appunto) abbiamo fatto meglio di tutti. Ciò però vuol dire che negli ultimi quindici anni lo Stato ha drenato risorse dal settore privato. Ha preteso, molto più di quanto ha dato. Nonostante ciò il debito è cresciuto. È fuori controllo. Siamo in trappola: i privati sono massacrati, producono di meno, sono poco produttivi, hanno un cambio rivalutato, ma il debito non scende. Come possiamo pensare di ridurre la montagna di debito?
I TASSI DI INTERESSE SALIRANNO
In questo scenario negli ultimi anni siamo stati relativamente aiutati dal basso livello dei tassi di interesse. Abbiamo un grande debito, ma tassi bassi. Ora la festa rischia di essere finita. Per tre motivi. Il primo è l’andamento generale dell’economia nel mondo. Mentre in Italia, ad esempio, i prezzi sono calati dello 0,1 per cento, in Europa sono mediamente cresciuti dell’1,1 per cento. Le pressioni affinché la Bce molli la sua politica di tassi zero sono forti. In America è già partito il processo di rialzo dei tassi. Oggi paghiamo 69 miliardi di euro di interessi all’anno su un debito di 2.173 miliardi. Fate un po’ voi i conti su cosa accadrebbe sui nostri conti con un rialzo di un solo punticino dei tassi. Un secondo motivo deriva dal fatto che Mario Draghi non può continuare all’infinito a comprare i nostri Btp, comprimendone così il prezzo. Fino ad ora ne ha acquistati 210 miliardi (13 per cento dell’intero ammontare del nostro debito), ma ha già promesso di rallentare lo shopping. Terzo fattore: le nostre banche. Sono gli acquirenti storici e più fedeli dei Btp. Ma i nuovi regolamenti europei, le obbligheranno ad alleggerire i propri portafogli di carta pubblica italiana, per ridurre la concentrazione del rischio su un solo emittente. Il combinato disposto di queste tre situazioni comporterà un aumento dei tassi di interesse sul nostro debito. E saranno guai. Nel solo 2017 dovremmo rinnovare più di 200 miliardi di prestiti e gli attuali tassi all’1,5 per cento per Mediobanca rischiano di essere un sogno.
L’OPZIONE DI RINEGOZIARE IL DEBITO
Il prodotto che non cresce schiacciato dall’austerità e dalla moneta unica rivalutata e il debito che sale «potrebbe prima o poi – scrive lo studio Mediobanca portare il Paese a considerare una ri-profilazione del debito». Una delle soluzioni, la più realistica per Mediobanca, potrebbe passare per un allungamento della durata delle scadenze, una riduzione delle cedole (quello che in Grecia hanno chiamato hair cut) o una combinazione delle due misure. A questa ipotesi lo studio dedica al massimo una ventina di righe. Non di più. Quando si toccano le regole dei titoli di Stato, aggiungiamo noi, si diffonde il panico sui mercati. Le regole si applicano a tutti. E dunque, verrebbe da dire, se si vuole fare casino, tanto vale portarsi a casa un bel malloppo.
ITALEXIT, L’USCITA DALL’EURO
È il cuore dello studio. La ridenominazione del debito pubblico in lire (cioè l’abbandono dell’euro) e il conseguente deprezzamento della lira «possono supportare scrive Mediobanca una sostanziale decurtazione del debito e, insieme a una politica monetaria ritornata sovrana, possono creare le condizioni per un genuino rilancio dell’economia italiana». Peraltro il mercato lo ha capito. C’è un indice che misura la possibilità che l’Italia lasci entro un anno Bruxelles, che è schizzato. Il Sentix (basato sulle opinioni degli operatori qualificati) a maggio dava lo 0,8 per cento di possibilità che ritornasse la lira, a giugno cresceva al 5%, per poi impennarsi al 19% di novembre e scendere al 16% di oggi.
GUADAGNIAMO OTTO MILIARDI
Nello scenario di Mediobanca che si concentra su cosa succede al nostro debito, si fanno delle ipotesi stringenti. La prima prevede che non si cambi la valuta (cioè i rimborsi continuino a essere fatti in euro) per circa 900 miliardi del nostro debito pubblico, che è stato emesso recentemente e che è vincolato a degli accordi europei chiamati Cac. Insomma in circolazione è come se ci fossero due tipi di titoli di Stato italiano: quelli nuovi non si toccano, i vecchi si rimborserebbero in lire. La seconda ipotesi, scontata, è che la Banca d’Italia si riprenda la sua sovranità. E la terza ipotesi è che la lira si svaluti del 30 per cento, e proprio per questo motivo renda più conveniente il rimborso del debito. Il conto finale è che il passaggio dall’euro alla lira ci farebbe subito avere un risparmio di 8 miliardi. Ma attenzione, dicono a Mediobanca, più passa il tempo e più si devono emettere nuovi titoli del debito pubblico (soggetti ai Cac) che non si potranno convertire in lire, e dunque ogni mese si erode il vantaggio di convertire il debito da euro in lire. Se questa operazione l’avessimo fatta nel 2013 avremmo avuto un vantaggio finanziario di 285 miliardi, oggi solo otto, nel 2017 saremmo in perdita.
CONCLUSIONI
Cosa dice lo studio di Mediobanca? Il debito rischia di andare fuori controllo per il prossimo aumento dei tassi e la nostra incapacità a crescere. Una soluzione di cui il mercato parla sempre di più è ridenominare il debito in lire, cioè uscire dall’euro. Ma Mediobanca (d’altronde è pur sempre una banca) prevede un meccanismo di uscita concordato, in accordo. Insomma ritiene che una parte del debito sia pagata ancora in euro, per sottostare a certi impegni da noi contrattualmente presi. Ma come i banchieri ben sanno: se io devo alla banca un euro è un mio problema, ma se alla banca devo un miliardo è un suo problema. Dunque l’ipotesi che Mediobanca esclude, ma che è pur sempre sul tappetto, è che il nostro debito in una parte ben superiore a quella che prevedono a piazzetta Cuccia venga ridenominato in lire. Svalutate. E in queste condizioni, i conti cambiano.
FONTE:
IL GIORNALE
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